Regia e Sceneggiatura di Jane Campion
Recensione di Silvana Ferrari
Se è possibile dare immagini alla poesia, se è possibile dare alle scene il ritmo dei versi, e alle parole analoghe rappresentazioni visive, Jane Campion con il film Bright Star ha dimostrato di saperlo fare, mettendo in scena la storia d’amore fra la giovane Fanny Brawne e il poeta romantico John Keats.
Operazione non facile il narrare l’amore di due giovani e belle creature, nella sua essenzialità di incontro e di conoscenza fra spirito e passione – corpo e anima, se si vuole mantenere, comunque e ad ogni costo, il rigore della verità storica e biografica ed evitare di cadere nei manierismi melodrammatici più usuali verso cui, una storia dall’epilogo così tragico, potrebbe tranquillamente scivolare. Una trappola che la regista evita abilmente e con maestria, costruendo la narrazione su un originale ribaltamento di prospettiva biografica.
E’ sulla meno nota Fanny Brawne che punta la macchina da presa: è lei la protagonista attraverso il cui sguardo vuole introdurci nella storia; è il suo, il punto di vista che la regista è interessata a rappresentare.
Nella storia dell’incontro fra lei e Keats è Fanny a muovere i primi passi: le sue osservazioni pungenti sul poema Endymion, i suoi inviti al ballo, i suoi sguardi, le sue curiosità e soprattutto la sua intrusione nel campo, ritenuto esclusivamente maschile, della poesia – Fanny osa chiedere delle lezioni per poterla capire -, ci danno immediatamente l’idea della sua personalità. Vivace, libera, schietta e sincera, fuori dai canoni convenzionali, piena di interessi e di creatività.
Mentre il fascino della poesia e di colui che ne è il creatore agiscono su di lei, mettendo le ali all’amore, noi spettatrici/ori, altrettanto affascinate/i, veniamo coinvolte/i e totalmente prese/i da quei versi, dalla forza dei sentimenti e dalle emozioni che essi evocano e che risvegliano in noi. Vediamo la poesia tradursi in ogni scena, essere rappresentata nella ricercata perfezione della ricostruzione degli interni, distillata nel paesaggio, nei colori della natura, dei fiori nei campi e nei giardini, nel passaggio delle stagioni, nella luce che cade nelle stanze e che illumina i volti dei due protagonisti e degli altri attori, tutti estremamente somiglianti ai ritratti dell’epoca.
Sempre Fanny dimostra di essere la più forte e decisa dei due, la più sicura dei propri sentimenti. E’suo il desiderio che il loro amore, tenuto inizialmente segreto, per convenienze sociali e per la mancanza di beni materiali da parte di Keats, venga pubblicamente dichiarato, agendo contro ogni suo interesse e ogni regola di buon senso, come la madre le fa notare. Unica figura adulta della famiglia, la madre è presenza discreta e vigile, misurata nelle critiche come generosa di consigli e di sostegno: è la sua indipendenza di pensiero ad autorizzare Fanny in quei comportamenti anticonvenzionali che la società considera come sconvenienti.
Più reticente e chiuso Keats, quasi intimorito della di lei vitalità, preso com’è dalla sua poesia e simultaneamente attirato dalle grazie della giovane, dalla sua franchezza ed estrosità. Con una certa qual dose di misoginia e di irritazione, si sente preda di forze e sentimenti che non riesce a controllare e che teme possano distoglierlo dalla sua passione prima e assoluta. In verità le sue condizioni economiche e il poco successo dei suoi scritti lo preoccupano come la paura della malattia che ha falcidiato la sua famiglia. Contro ogni sua ansia e angustia mai periodo fu per lui più fecondo come il biennio 1818-1820.
Alla creatività poetica di Keats, la regista contrappone quella di Fanny, la sua passione per le stoffe dai colori vivaci e per i vestiti che disegna e cuce in fogge originali e moderne, dove fantasiosi giri di balze e trine arricchiscono le sue gonne e i suoi corpetti: fin dalla prima scena la penna e l’ago sono a confronto, deliziosamente rappresentati.
Mentre osserviamo i dialoghi d’amore farsi poesia, e gli scambi epistolari tramutarsi in quelle parole che resteranno tra le più belle che due innamorati si sono mai scambiati, la rappresentazione filmica si fa casta, innocente e nel contempo estremamente erotica: la regista, rifuggendo da qualsiasi scena che vada oltre teneri e delicati baci e sofferti abbracci, vuol far emergere la purezza, l’ingenuità, la tenerezza del sentimento nato fra i due giovani. Così come in altre inquadrature ci immerge nella potente attrazione dei loro corpi, nell’estenuante sensualità delle loro mani che si sfiorano, si cercano, si accarezzano, nel desiderio dei volti vicinissimi e delle braccia che si stringono, a raffigurare una passione che annulla le barriere, supera ogni lontananza facendosi eterna.
L’amore è trasformazione e cambiamento, ci dice la regista. E vediamo Fanny farsi riflessiva e pensosa, consapevole di un futuro incerto, quasi presaga della sofferenza e del lutto che l’attendono.
E’sempre lei e il suo dolore, un pianto soffocante come un ultimo respiro, e le sue mani che cuciono l’abito da lutto, a dirci della morte di Keats, mentre in una splendida e irreale Piazza di Spagna, inquadrata dall’alto e immersa in una luce argentea, passa solitaria la bara del poeta.
Di Fanny Brawne sappiamo che portò il lutto per due anni, che mai si separò dall’anello donatole da Keats, che si sposò nel 1833 ed ebbe tre figli, che morì nel 1865.
Dando parola a Fanny Brawne, Jane Campion realizza un altro indimenticabile ritratto di donna che, come le altre sue potenti figure femminili, entra a far parte della storia del cinema. Ricordo i suoi film: Le due amiche (1986), Sweetie (1989), Un angelo alla mia tavola (1990), Lezioni di piano (1993), Ritratto di signora (1996), Holy Smoke (1999), In the Cut (2004).