Regia: Eliza Hittman
Dopo giorni, continuo ad avere in testa le immagini, le scene, i volti di questo film bellissimo e continuo a domandarmi il senso di quella valigia grossa e ingombrante che Autumn e sua cugina Skylar si trascinano dietro per tutta la durata del film, su e giù dai pullman, per le scale della metropolitana, lungo strade ingombre e trafficate.
Skylar l’aveva preparata di fretta la sera prima riempiendola di qualche maglione e un paio di jeans per quel viaggio di pochi giorni che le avrebbe portate a New York dalla loro cittadina rurale nel mezzo della Pennsylvania. Lì Autumn avrebbe potuto abortire senza che la madre e il patrigno venissero a saperlo.
Un tema difficile trattato con grande cura, attenzione e sensibilità dalla regista Eliza Hittman che già nei suoi precedenti lavori (It Felt Like Love, 2013 e Beach Rats, 2017) aveva raccontato dell’adolescenza e dei problemi legati alla sessualità fra le/i giovani.
I dialoghi sono scarni, raccontano di più le immagini. Si soffermano sui volti delle due ragazze con delicatezza, senza voyeurismo; sentiamo e percepiamo i loro stati d’animo, i pensieri, le emozioni. Molti i primi piani che ci spingono a tentare di penetrare l’intimità di Autumn, il suo dolore, la sua insicurezza, la sua confusione, per saperne di più, per capire.
Al suo fianco, fin dal primo momento, c’è sempre Skylar, la pianificatrice del viaggio, mente lucida e razionale, l’amica su cui si può contare che mai ti abbandonerà. Anche qui poche parole, non necessarie: quando esiste una comprensione profonda le cose che si devono fare si fanno, mentre le discussioni sarebbero puro e inutile esercizio. La solidarietà, l’intesa sono dati di fatto, ci sono e scorrono fra loro due naturalmente.
Di Autumn si sa poco. Dalle prime scene – uno spettacolo scolastico, una cena di famiglia, un patrigno aggressivo, una madre preoccupata e stanca – emerge il ritratto di una giovane isolata, non omologata, carattere schivo e timido ma determinato nelle sue scelte.
E fin dalle prime scene la regista mostra immediatamente, pur nei pochi ruoli assegnati nella sceneggiatura, il ritratto di un’umanità maschile dai comportamenti indecenti e molesti.
In Mai raramente a volte sempre tutto è mostrato nella sua essenzialità, nessuna sbavatura, nessuna retorica e ideologia per ottenere consenso, né scene fuori centro; tutto va verso la scena madre, il colloquio di Autumn con la psicologa nella Clinica degli aborti. Qui il film si fa documentario tanto il lavoro della regista è preciso, nelle inquadrature, nei movimenti di macchina, negli stacchi per mostrare il momento in cui Autumn ha coscienza, comprensione di sé, di ciò che le è accaduto. Uno svelamento e una liberazione in un momento di profonda consapevolezza e di conferma delle proprie decisioni.
Non ci dimenticheremo facilmente di questo film e delle due giovani protagoniste, Sydney Flanigan nel ruolo di Autumn e Talia Ryder nel ruolo di Skylar. Le seguo ancora mentre percorrono faticosamente le strade di New York, con la loro assurda valigia alla ricerca della loro meta, senza mangiare né dormire, non vedendo e non percependo nulla del fascino della città, dove tutto scorre indifferentemente. Così vulnerabili ai continui approcci maschili, ma così determinate a evitarli, come dei fastidi che si sa si devono sopportare.
Lo definirei un road movie al contrario, in una costante rivelazione su come lo sguardo di una donna possa aprirci nuovi orizzonti.
Never Rarely Sometimes Always è stato premiato con l’Orso d’Argento, gran premio della giuria, alla Berlinale 2020, e al Sundance Film Festival 2020 con il Dramatic Special Jury Award.
Silvana Ferrari